Partiti e sistemi di partito nelle democrazie europee by unknow

Partiti e sistemi di partito nelle democrazie europee by unknow

autore:unknow
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Politica, Prismi
ISBN: 9788815142795
editore: Societa editrice il Mulino Spa
pubblicato: 2009-10-14T22:00:00+00:00


3. Da cinque a sette con ritardo e senza terremoti: l’eccezione svedese nel panorama nordico?

Il panorama partitico nordico venne scompaginato negli anni Settanta da una serie di «terremoti elettorali». Nel 1973 la Danimarca vide il crollo dei socialdemocratici al 25,6%, l’ingresso in Parlamento di tre nuovi partiti (populisti di Mogens Glistrup, democratici di centro, cristiano-popolari) e il ritorno nel Folketing di comunisti e Partito della giustizia. Da 5 partiti in Parlamento si arrivò a 10 [Miller 1996]. La Norvegia vide un crollo socialdemocratico e l’avvento nello Storting di un partito populista: il «Partito di Anders Lange per una forte riduzione delle tasse, dell’Iva e delle interferenze governative» [Ignazi 1994, 85]. La Finlandia non ebbe terremoti, ma nel 1970 era entrato in Parlamento il Partito rurale, di Veikko Vennamo, di stampo populista.

In precedenza i quattro paesi nordici (Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia) avevano posseduto sistemi di partito simili, il cui modello di perfezione era la Svezia [Arter 1999a]. Avevano tutti 5 partiti principali sull’asse sinistra/destra: comunisti, socialdemocratici, agrari-centristi, liberali e conservatori. Le varianti erano i cristiano-democratici in Norvegia e il Partito svedese in Finlandia. In Danimarca per alcuni anni fu rilevante il Partito della giustizia, al governo negli anni Cinquanta, e i comunisti furono emarginati da un Partito socialista popolare, frutto di una scissione a «destra» del partito e poi anche dai Socialisti di sinistra, nati da una scissione a sinistra dei socialisti popolari.

Altro carattere comune ai quattro sistemi partitici era la consistente forza elettorale socialdemocratica, spiccata nei casi svedese e norvegese, più contenuta in Danimarca e soprattutto in Finlandia. Tale forza si tradusse in una presenza al governo predominante e in un’influenza determinante per la costruzione di un sistema di welfare nordico, con peculiarità che tuttora lo distinguono, per qualità e quantità [Kuhnle 2000].

Il sistema partitico svedese rimase immune da questa ondata di cambiamenti almeno sino al 1988. Certamente ci furono eventi storici. Nel 1973 il Riksdag fu diviso a metà tra blocco socialista e non socialista e i voti parlamentari spesso dovettero essere decisi per estrazione a sorte[3]. Nel 1976 la sconfitta elettorale e la perdita del potere da parte del Sap sfatarono il mito della sua invincibilità. Non si verificò la moltiplicazione dei partiti: non sorse alcun partito populista di destra, nessuna scissione dei socialdemocratici verso sinistra (come in Norvegia sul tema della Cee) o verso destra (come in Danimarca con la formazione dei democratici di centro). Insomma, il modello aveva resistito quando le sue varianti si erano quasi snaturate.

Le motivazioni di questa resistenza del sistema partitico svedese alla «bufera elettorale» scandinava sono molteplici. In Svezia non era emersa la spaccatura sull’adesione alla Cee, che aveva accentuato le divisioni partitiche in Danimarca e in Norvegia. Una delle spiegazioni per l’assenza di un partito di destra populista ha evidenziato la capacità dei partiti non socialisti tradizionali di rappresentare un’alternativa valida per il voto di protesta, non avendo avuto, sino al 1976, il compito di guidare il paese. Danesi e norvegesi avevano già sperimentato (rimanendo delusi) l’alternativa proposta dai partiti borghesi.



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